Confessioni di una maschera

Confessioni di una maschera di Yukio Mishima (Tutte le opere, Mondadori, 2005) si apre con una citazione tratta da I fratelli Karamazov in cui viene introdotto il tema principale dell’opera: il travaglio interiore di un uomo dilaniato tra l’ideale della Madonna e quello di Sodoma, tra la vergogna che alberga nella sua mente e la terribile bellezza a cui anela il suo cuore.

Questo classico della letteratura giapponese è “un romanzo dell’io”, una storia dalle forti connotazioni autobiografiche:

Ho rivolto verso di me la lama dell’analisi psicologica che fino ad oggi avevo affilato su personaggi immaginari (…).
Il fatto che il titolo a prima vista sembri una contraddizione deriva dal paradosso che la maschera fa parte del volto del protagonista, è maschera di carne, e nella confessione di una maschera simile non vi può essere verità. L’essere umano non è assolutamente in grado di fare una confessione. Tuttavia, qualche rara volta, soltanto una maschera profondamente impressa nella carne ci riesce. (Note)

Il protagonista di queste memorie, torbido intreccio di verità e menzogna, è un ventenne ossessionato dai travestimenti. Sin da bambino, si è immedesimato in figure rivestite di sangue, in eroi e regine sull’orlo del baratro. Il giovane è affascinato dalla degradazione e dalla morte, dal sogno di imperi in rovina e dall’immagine di San Sebastiano, esanime martire trafitto. Dietro queste fantasie morbose, si cela una dolorosa consapevolezza, quella di non poter essere sé stesso:

L’eccitazione (…) sgorga dalle fantasie sadiche, quelle fantasie in cui Mishima e i suoi personaggi si gettano a capofitto e che si identificano col furore dionisiaco. È un piacere pagano che però lo scrittore giapponese non predica come il suo apparente ispiratore, il marchese de Sade, ma di cui anzi sembra spesso dolersi. (…) Quell’erotismo fatto di eccessi, conseguenza di un’inguaribile solitudine in cui l’altro non può essere che vittima, è forse un male. Ma proprio da questo male trae la sua forza di attrazione (…). (La neve e il sangue, Maria Teresa Orsi)

L’autore di queste confessioni nasconde agli altri e nega persino a sé stesso la sua vera natura: nel Giappone degli anni ’40 l’omosessualità è considerata come un tabù, come un segreto vergognoso. L’impossibilità di vivere appieno la sua sessualità condanna il giovane alla solitudine e lo obbliga a indossare perennemente una maschera. La scissione tra il suo io interiore e quello esteriore dà vita a due distinte personalità: l’una è rigida e conformista, mentre l’altra è più insicura, ma anche più autentica.

Durante l’ultimo anno della Seconda guerra mondiale, il ventenne decide di mettere in atto il più drastico dei travestimenti: cerca di convincersi di essersi innamorato di Sonoko, una sua conoscente. Questa finzione lo lacera dall’interno, ma lui si sforza di tenere in piedi la messinscena:

Quegli sforzi artificiali mi trasmettevano una spossatezza strana e un po’ torbida. Il mio vero io aveva percepito l’innaturalezza che mi spingeva a ripetere senza sosta di essere innamorato, e si ribellava con una spossatezza mentale ostile che sembrava contenere un terribile veleno. A volte, nelle pause che distanziavano questi sforzi, venivo assalito da un vuoto paralizzante per fuggire dal quale mi incamminavo con sfrontatezza verso diverse fantasie.

L’impossibilità di amare Sonoko (di amare qualsiasi donna) porta l’uomo a concepire la vita come un peso, come un fardello insostenibile. La maschera di Mishima arriva ad augurarsi che il conflitto possa spazzare via lui e l’intera società, una società in cui sa di non poter trovare posto. Queste fantasie sadiche ed autodistruttive sono l’unico possibile sbocco per le sue passioni represse: durante l’infanzia, l’età a cui rimandano le metafore che costellano la sua confessione, poteva ancora sperare di stringere la mano di uno dei suoi compagni, ma ora non più. Il ventenne è condannato a indossare per sempre un travestimento:

La persona del romanzo narra della dicotomia fra il sé e un io manifesto; si addentra anche nel resoconto degli intimi vissuti onirici, legati a ideali estetici che originano dalla sua natura sessuale e, tuttavia, le sue confessioni non mirano a motivare o accreditare il proprio sé. La natura sessuale del protagonista, mortificata come degenerazione, resta relegata nel profondo. (La neve e il sangue, Maria Teresa Orsi)

Possiamo vedere incrinarsi la maschera, possiamo assistere all’atto del graduale spogliarsi dell’altro, ma non possiamo vedere il suo vero volto. Il romanzo di Mishima si conclude in una sordida sala da ballo, correlativo oggettivo sia dell’angoscia che attanaglia il protagonista, sia di un paese sconfitto, minato dalla crisi dei vecchi valori:

Nell’alzarmi guardai di sottecchi ancora una volta in direzione delle sedie sotto il sole. Sembrava che il gruppo di amici fosse andato a ballare, abbandonandole sotto i raggi battenti del sole.
Una bevanda colata sul tavolino proiettava verso l’alto riflessi fulgidi e terrificanti.

Il conflitto tra la vergogna e la bellezza è destinato a rimanere insoluto, a corrodere, come un veleno, l’anima del protagonista. In Confessioni di una maschera, così come in Onnagata, un raffinato racconto di Mishima incentrato sul mondo del teatro kabuki, i sentimenti più intimi non possono venire espressi ad alta voce. Il dolore viene taciuto, perché la parola Sodoma non può venire pronunciata.

Per approfondire:

La recensione di Lacooltura

Yukio Mishima, strenuo difensore della bellezza e dell’etica giapponese – ‘900letterario

10 pensieri su “Confessioni di una maschera

    1. All’inizio non mi aveva presa: ho letto “Neve di primavera” qualche anno fa e non ne sono rimasta impressionata. Poi l’ho riscoperto attraverso la raccolta di racconti “La foresta in fiore” e questo volume dei Meridiani (li trovo estremamente utili per chi si avvicina per la prima volta a un autore).
      Sono contenta di essere riuscita a farti rivalutare Mishima. Buone letture :).

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  1. Lo Specchio di Ego

    Ho letto questo romanzo (finora l’unico di Mishima) e nella tua descrizione ho trovato conferma di tutti i ricordi che conservo di quella lettura. Il tema mi è caro, eppure c’era qualcosa di respingente in quelle pagine. La cosa che mi aveva colpito di più era la cultura occidentale di cui era imbevuto il protagonista: Dostoevskij, San Sebastiano ecc. ecc., proprio come hai detto pure tu. Probabilmente, in quei rarissimi momenti in cui si toglieva la maschera, l’Occidente era l’unico specchio in cui lui potesse guardarsi. Che ne pensi?

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    1. Diciamo che Mishima è molto bravo a “mettere a disagio” il lettore: da qui l’impressione di sentirsi respinti.
      La riflessione che proponi (come tutte le tue riflessioni) è decisamente interessante. Io ho visto più che altro un collegamento con un senso di colpa che, per certi versi, sembra appartenere a una matrice occidentale-cattolica (vedi Sodoma e Madonna). Poi di sicuro entra in gioco anche la formazione dell’autore (e, direi, una certa idea di estetismo) e l’occidentalizzazione che in quegli anni stava investendo il Giappone.
      Forse il protagonista è semplicemente diviso tra due mondi (vedi: https://archive.nytimes.com/www.nytimes.com/books/98/10/25/specials/mishima-torn.html).
      Grazie mille per la visita e per questo spunto di riflessione (continuerò a rimuginarci, ma mi piacerebbe “passarti la palla” e vederti alle prese con un post dedicato a Mishima ;)).
      Ah, ti consiglio caldamente il “Padiglione d’oro”. Fammi sapere e buone letture!
      Nel racconto dedicato al mondo del teatro, invece, si guarda a Oriente.

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  2. Lo Specchio di Ego

    Ti ringrazio moltissimo per la tua risposta così bella e per i preziosi consigli di lettura: ho appena aggiornato la lista (e tra l’altro il Natale si avvicina…).
    Condivido pienamente il tuo parere, il senso di colpa, la morale cattolica sono senz’altro presenti, così come il suo essere diviso fra Oriente e Occidente e l’impossibilità di scegliere completamente uno dei due. Riguardo invece alla mia riflessione, posso dirti che è stata motivata anche dal fatto che in “Confessioni di una maschera” Mishima cita varie volte Magnus Hirschfeld, il primo medico a trattare clinicamente gli omosessuali e i transessuali, aiutandoli a diventare se stessi (io, ad esempio, ho conosciuto Hirschfeld proprio grazie a Mishima). Forse, mi sono detto, se il giovane Mishima ha mai pensato a una vita diversa da quella offerta dal Giappone militaresco e tradizionale descritto nel romanzo, di sicuro, già allora, guardava con speranza a Occidente, dove uomini come Hirschfeld avevano dimostrato che una vita diversa poteva anche essere.

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    1. Non mi ero soffermata su Hirschfeld: grazie per avermi spiegato più nel dettaglio il tuo ragionamento. Di sicuro è un’ipotesi poetica: vedrò se online si trova qualcosa in più in proposito.
      Sei una fucina di spunti di riflessione!

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