Come le mosche d’autunno

I libri di Irène Némirovsky ti lasciano sempre addosso un senso di freddo: il brivido che si prova nell’osservare un paesaggio desolato, nello scrutare un mondo in cui non c’è più posto per la speranza. Nelle sue opere, la scrittrice mette impietosamente a nudo gli uomini quali sono (vedi l’introduzione della traduttrice Maria Nadotti a Suite francese). Come le mosche d’autunno (Garzanti, 2017) non fa eccezione.

Questa scrittura spietata e raggelante, che mette a nudo fragilità e fratture, sembra essere il riflesso di una biografia brevissima e crudele:

1903, 11 febbraio, Kiev, Ucraina: nascita.

1913: trasferimento a San Pietroburgo.

1918, gennaio: fuga dalla Rivoluzione russa. Soggiorno in Finlandia. Poi a Stoccolma.

1919, luglio: trasferimento in Francia.

1942, 13 luglio: arresto. 1942, 16 luglio: deportazione.

1942, 17 agosto, Auschwitz, Polonia: morte. (Gli uomini quali sono, Maria Nadotti)

Come le mosche d’autunno parla di uno degli strappi subiti che hanno segnato la vita dell’autrice: quello provocato dalla Rivoluzione russa. A questo trauma va poi a sommarsi, come ricorda il traduttore Lanfranco Binni, il suicidio dell’amata tata Zézelle. Nel libro viene descritta, attraverso lo sguardo della governante Tat’jana, la lacerazione interiore di chi ha dovuto lasciare la sua patria perché, in quel luogo, gli uomini si erano trasformati in lupi pronti a sbranarsi a vicenda.

Tat’jana ha servito per decenni, con devozione, la famiglia Karin e l’ha seguita nell’esilio. La donna rievoca la terra che è stata costretta ad abbandonare, una terra che è sempre nei suoi pensieri. Tutto è finito ormai. Il passato è morto, ma non è sepolto: la governante continua a riviverlo, a visitare in sogno le stanze della casa avita dei Karin. Una rievocazione ossessiva, che finisce col diventare vertigine e spaesamento. Lo spaesamento dell’esule che non riesce a mettere nuove radici, che continua a cercare la parte di sé che ha lasciato indietro durante la fuga.

La casa in cui vive ora Tat’jana si contrappone alla casa delle sue memorie, una dimora che ha cercato di difendere sino all’ultimo dalla bufera della Rivoluzione. Allo stesso modo, l’autunno francese, insopportabilmente mite, si contrappone al gelido autunno russo, a visioni di fiocchi di neve che la governante non potrà più veder danzare leggiadri nell’aria.

Come le mosche d’autunno è un libro dalla forte componente onirica, costellato di visioni invernali. Un libro notturno come tutte le opere di Némirovsky:

È notte nei suoi testi. Persino la luce, il bianco della neve, è un abbagliamento di cui si muore. Il suo è un mondo strutturalmente in guerra, dove non possono esserci né vincitori né vinti, ma solo belligeranti, perché gli esseri umani, uomini e donne, sono contaminati e contaminanti. (Ibidem)

L’autrice ci fa sentire sulla pelle il gelo dell’inverno russo del 1918, un inverno in cui la neve si è macchiata di sangue. La descrizione del paesaggio si sovrappone con naturalezza a quella dei moti interiori: a ogni scricchiolio del ghiaccio corrisponde una frattura che si apre nell’anima della governante, dell’esule destinata a venire uccisa dai suoi stessi ricordi.

In mezzo alla bufera della storia brilla una stella: lo splendore algido di una scrittura tagliente e perfetta. Una scrittura che non offre consolazioni e che possiede lo stesso fascino di un lago ghiacciato: una lastra sottile che ci permette di vedere l’abisso sottostante e che rischia di spezzarsi, facendoci precipitare nel baratro.

Come le mosche d’autunno è un libro desolante e spietato, specialmente se lo si legge oggi, pensando a come la fuga del 1918 sia stata destinata a ripetersi nella vita di Némirovsky. La scrittrice, dopo essere scappata dalla Russia, pensava di aver trovato una nuova madre patria, invece quella “madre” l’ha tradita. Quanti altri capolavori avrebbe ancora potuto scrivere, se la bufera della storia non l’avesse trascinata con sé? Quante vite sono state ingoiate da quella notte oscura che continua a tormentarci e che non possiamo permetterci di dimenticare?

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