Antichi demoni, nuove divinità

Sapete che i vampiri non hanno il riflesso nello specchio? Se volete trasformare un essere umano in un mostro, toglietegli, a livello culturale, ogni riflesso di se stesso” (Junot Diaz). Questa citazione fulminante, tagliente come la lama di un rasoio, è il punto focale dell’antologia di racconti tibetani Antichi demoni, nuove divinità (O Barra O Edizioni, 2020). Gli autori delle storie racchiuse in queste volume sono stati privati del loro “riflesso”, della loro cultura.

Nella sua accattivante introduzione, la curatrice Tenzin Dickie paragona questa raccolta a un coming out:

(…) mi piace pensare a questo libro come al coming-out del racconto tibetano. E i coming-out sono pieni di pericoli, potere e possibilità. Tramite queste storie a volte assurde, a volte strane e sempre commoventi, gli scrittori offrono al pubblico occidentale uno sguardo autentico sulle vite di comuni tibetani che si muovono nello spazio tra tradizione e modernità, occupazione ed esilio, storia nazionale e personale.

Sì, i coming out sono pieni di pericoli e di possibilità: questa antologia non fa eccezione. L’importanza di questa finestra aperta sul Tibet, paese affascinante e dalla storia tristemente nota, cozza con una qualità letteraria non sempre, almeno a mio giudizio, eccellente. Se avete “frequentato” maestri della short story del calibro di Carver o di Julio Cortázar, rischiate di ritrovarvi a storcere il naso davanti ad alcune di queste storie.

L’arte del racconto consiste nel scegliere un singolo, potente, fotogramma: nell’evocare un’immagine tanto chiara quanto incisiva nella mente dei lettori. Chi scrive racconti deve dare vita a parabole perfette ad alta densità narrativa ed emotiva. Alcuni scrittori tibetani padroneggiano questa difficile arte, mentre altri sembrano avere ancora molto da imparare. Ovviamente, questo è solo il mio modesto parere, ma vi confesso che mi è rimasto l’amaro in bocca nel leggere alcuni passaggi dell’antologia. Se vi va, proviamo a dare insieme un’occhiata alle pagine di Antichi demoni, nuove divinità.

Iniziamo dall’introduzione di Tenzin Dickie, vero e proprio cuore pulsante del libro: la prefazione ci permette di ripercorrere la storia della letteratura tibetana. Una storia che si intreccia strettamente con quella delle istituzioni religiose del paese: i monasteri erano i centri privilegiati della cultura. Però questo legame tra religione e cultura sembra aver ritardato lo sviluppo della narrativa. Perché? Per due motivi: 1) l’ideale buddista prevede l’eliminazione del desiderio, l’elemento fondante di ogni finzione letteraria 2) la stampa a caratteri metallici, più economica, era considerata impura dai monaci.

Proprio quando, finalmente, iniziavano a porsi i presupposti per uno sviluppo di una letteratura nazionale, il Tibet è stato travolto dall’ondata della Rivoluzione Culturale Cinese:

I monasteri furono distrutti, i libri bruciati e l’identità tibetana annientata.

Solo con la morte di Mao e la fine della Rivoluzione Culturale, lo stato Comunista concesse alla lingua tibetana di rivivere.

A quel punto però, nonostante una rinascita legata alla fioritura di alcune riviste culturali, il danno era ormai stato fatto: una generazione è stata costretta a crescere negli insediamenti di rifugiati tibetani del Nord India. Tenzin Dickie e i suoi coetanei sono stati letteralmente tagliati fuori dal loro passato e dalla loro cultura. Per questo motivo, la letteratura tibetana è così importante per loro: è lo specchio in cui possono ritrovare il loro riflesso perduto.

Veniamo ai racconti. La prima storia, Le lacrime di Nyima Tsering (Woeser), mette in luce il dissidio interiore di un uomo che ha deciso di rimanere nella sua terra, accettando di scendere a patti con gli occupanti. La sequenza in cui i tibetani in esilio rivolgono al protagonista sguardi simili a gocce di olio o burro rovente è sicuramente d’impatto, ma ho avuto l’impressione di stare leggendo solo un capitolo di una storia che avrebbe meritato un più ampio respiro.

Lhasa Tibet

Il collegamento (Bhuchung D. Sonam), un racconto in cui il dramma dei rifugiati tibetani si sovrappone alla quello degli abitanti del Khasmir, e La stagione del ritiro spirituale (Tsering Namgyal Khortsa) mi hanno lasciato addosso il medesimo senso di insoddisfazione: sembrano spunti appena abbozzati, pietre grezze che non sono state lavorate sino a raggiungere il grado di purezza che ci si aspetta da un buon racconto.

Veniamo a una serie di storie in cui un elemento fiabesco o fantastico irrompe nella realtà di tutti i giorni. Il quinto uomo (Tenzin Dorjee) è un’insolita “ghost story” in cui l’abuso di sostanze ricreative dà vita ad illusioni che si riveleranno più fondate del previsto. Invece, ne Il volo dei cavalli del vento (Pema Tsewang Shastri) una coincidenza quasi favolosa, originata dal volo di un palloncino, trova una spiegazione razionale.

I giovani protagonisti de Il silenzio (Jamyang Norbu) e de Il sogno di un menestrello errante (Pema Tseden), due favole amare e struggenti, imparano a loro spese la veridicità del proverbio attento a ciò che desideri. Il primo esprime un desiderio che gli si ritorcerà contro, mentre il secondo inseguirà per tutta la vita un sogno vuoto. Per entrambi il desiderio di un amore troppo bello per essere vero si trasformerà in un’illusione perduta.

L’amore in Antichi demoni, nuove divinità fa spesso rima con dolore. Nei racconti di Kyabchen Dedrol (L’agata e la cantante, Il pellegrinaggio nella neve) delle giovani donne, insidiate dai demoni della modernità, vivono la passione come oggetti passivi, invece che come soggetti attivi. In Dolma (Dhondup Tashi Rekjong) il protagonista rincontra una vecchia compagnia di scuola che, in seguito a un matrimonio combinato, sembra esseri “frantumata” in una teoria di riflessi contraddittori.

Di MyName (Fanghong) – Opera propria, CC BY 2.5

In Lettera d’amore (Tsering Wangmo Dhompa) si intrecciano tre storie d’amore: la nascente relazione tra la protagonista, una ragazza del giorno d’oggi, e un suo coetaneo; il legame matrimoniale che unisce i genitori della fanciulla; l’amore epistolare tra una vedova, che abita nello stesso vilaggio dei ragazzi, e un americano. A queste singole trame amorose vanno poi ad affiancarsi anche due relazioni “comunitarie”: quella tra i nepalesi e i rifugiati tibetani in Nepal e quella tra i profughi e i loro “sponsor americani”.

Anche i racconti di Pema Bhum ci parlano di relazioni pericolose: ne La mancia un emigrato intravvede una donna che potrebbe essere sua moglie in un bordello americano, mentre ne L’occhiolino una famiglia deve fare i conti con gli occupanti cinesi. Entrambe le storie sono caratterizzate da evocative immagini ricorrenti: ne La mancia dei pesci boccheggianti amplificano l’atmosfera claustrofobica del racconto, mentre ne L’occhiolino ci ritroviamo a fissare più volte il volto sorridente del presidente Mao.

Antichi demoni, nuove divinità si chiude con una chicca: La valle delle volpi nere di Tsering Dondrup, una lucida denuncia del trattamento riservato ai nomadi tibetani dai leader cinesi. Questo testo mette in luce aspetti della cultura e della storia del Tibet che erano stati solo accennati nei altri racconti: gli effetti dell’occupazione, lo sfruttamento delle risorse naturali del paese, l’esodo dei giovani religiosi dai templi, l’insanabile conflitto tra tradizione e modernità.

Alla fine di questa lettura segnata da alti e bassi, mi è rimasto il dubbio di non aver scelto il libro giusto. Questo rischioso coming out, a mio giudizio, è riuscito solo in parte. Riconosco il valore culturale dell’opera, ma mi chiedo se non sarebbe stato meglio proporre le opere integrali dei più talentuosi tra questi “vampiri tibetani”, invece di offrire ai lettori questi “frammenti di specchio”.

Approfondimenti:

Old Demons New Deities – Hindustan Times

Tibetans Disenchantment Conversation with Tenzin Dickie – World Literature Today

Il sito Italia Tibet

Pillole di letteratura tibetana – Mirabile Tibet

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